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Il Manifesto
20/08/2005

Andrea Cavazzini


I custodi della buona scienza

«Strane alleanze», un saggio che ricostruisce la riflessione filosofica sulla scienza durante il Novecento francese. Dalle analisi di Bachelard a Georges Canguilhem, da Louis Althusser a Michael Foucault, il tentativo di reagire alla «crisi della ragione», considerando l'agire scientifico come una forma di vita

Strane Alleanze di Enrico Castelli Gattinara (Mimesis, pp. 212, € 16,00), come gli altri libri della collana «Epistemologia» di questa casa editrice milanese, tratta del nesso tra filosofia, scienze e storia nella cultura francese di fronte alla «crisi della ragione». La risposta francese alla crisi dei modelli assoluti di razionalità fu di ricorrere alla storia per fondare una ragione aperta: il fine del Congresso Internazionale di Filosofia di Parigi (1900), che apre suggestivamente il libro, era di rendere «flessibile» il razionalismo di contro sia all'irrazionalismo, che faceva dei mutamenti delle scienze altrettanti fallimenti, sia all'autonomizzarsi crescente dei saperi e delle tecniche dalla filosofia, che tentava di riaffermare il proprio primato e un ruolo di sorveglianza. La storia di questo progetto è storia della sua esplosione: la filosofia abbandonerà sempre più le pretese normative e riformulerà il proprio statuto in termini di «razionalismo sperimentale», tale da render conto della storicità della ragion scientifica: «le teorie configurano una certa esperienza organizzando un ordine della realtà. La realtà organizzata e costruita in tal modo non resta inerte, ma reagisce sull'esperienza che vi si adatta solo in modo approssimativo, e l'obbliga a una revisione delle teorie, che esigeranno esperienze diverse, le quali modificheranno la costituzione della realtà, la quale a sua volta di nuovo si adatterà approssimativamente e così via all'infinito». Tra ragione e sperienza In questo razionalismo aperto la storia delle scienze diviene interna all'epistemologia: l'essenza della scienza è modificarsi ristrutturando il rapporto mai fisso tra ragione ed esperienza. Questa dinamica immanente alla dialettica interna delle scienze, mal sopporta una regolazione esterna: le pretese egemoniche della filosofia cedono alla storicità della ragione. I tradizionali concetti filosofici diventano superflui come sorveglianti delle scienze: un sapere senza tutori deve essere descritto da una riflessione sulla dinamica delle scienze che non le concepisca mediante l'idea di un centro permanente e puro, di un'origine del pensiero. Così per Bachelard: «l'io non era più un assoluto, una certezza primitiva semplice, ma un intreccio complesso e plurale, multiforme e contestuale, punto di vista e non punto di partenza o origine». Il soggetto non è mai dato, ma è sempre relativo ad un campo costituito da formalizzazioni matematiche, formule, spiegazioni, sistemi teorici e ipotesi. Il rifiuto di punti d'appoggio permanenti fuori della rete delle realizzazioni scientifiche effettive è comune a Bachelard e a Jean Cavaillès, che voleva un'epistemologia senza soggetto tutta concentrata sul valore immanente dei concetti nella loro complessità, un'unità della scienza irriducibile all'identità statica dell'io strutturato una volta per tutte. Lo stesso principio di immanenza in Georges Canguilhem è saldato ad una filosofia del vivente: «Il suo particolare "vitalismo" rende il concetto una funzione vitale, un modo del vivente, non più uno dei vertici dell'intelletto, la funzione più alta di questa facoltà spesso opposta alla natura ed alla sua irrazionale vitalità. Ma formare concetti è una forma del vivere perché, come la vita, è sempre in movimento e in trasformazione». La scienza non dipende da un centro, è parte della totalità di una forma di vita; il movimento ed il mutamento dei concetti, la tendenza della razionalità ad ampliarsi e a differenziarsi, sono analoghi al moto espansivo della vita: si tratta sempre di stabilire nuove norme di vitalità, di verità e di oggettività. Da qui la nozione canguilhemiana di errore. Le scienze progrediscono rettificando gli errori, che non sono l'ombra della verità, il loro statuto è positivo: l'errore non è un fatto isolato, ma un risultato che appartiene a un complesso d'idee differente da quello che prenderà il suo posto e che lo giudicherà quindi errato. La presenza dell'errore, implicante necessariamente la rettifica, emerge all'incrocio di di diverse norme di verità: non è deviazione, ma una verità altra rispetto alla discorsività che l'esamina. L'errore in Canguilhem si lega ad una teoria della patologia, fenomeno che coinvolge l'intero organismo, forma di vita complessiva e non mera sproporzione rispetto a parametri obiettivi di normalità: la patologia è una qualità altra, ma appartiene allo stesso livello della normalità, come tra verità ed errore c'è una differenza qualitativa, non quantitativa. Concetti quali verità, normalità, errore, patologia, sono contestuale: «Ambienti ed epoche differenti definivano diverse forme di normalità e malattia. Come non c'era più un soggetto fissato categorialmente una volta per tutte, non c'era più neppure uno stato organico normale valido sempre e in ogni luogo. Esso era relativo a condizioni specifiche e a norme stabilite, suscettibili di cambiamento. Salute e malattia sono irriducibilmente storici, non condizioni "naturali" ma funzioni di diversi sistemi socio-storici che si possono studiare come oggetti antropologici». Le occasioni mancate Si può dire che Canguilhem ha fatto con la patologia e la normalità ciò che Marc Bloch ha fatto con la superstizione, la forma dei campi o i mulini a vento: ricondurre un oggetto apparentemente ovvio al sistema di rapporti storici da cui trae senso. Questo folgorante accostamento indica un tema cruciale nel libro: le occasioni mancate da epistemologi, storici e storici delle scienze per arricchire la propria riflessione semplicemente tenendo conto del lavoro di quelli che spesso erano assai prossimi compagni di strada. I rapporti non mancavano tra storici ed epistemologi, ma erano somiglianze di famiglia oggettive, obiettive circolazioni di idee e problemi, più che collaborazioni esplicite in cui una disciplina si arricchisce e muta ricorrendo ad un'altra. In particolare, fu mancato l'incontro tra storia generale e storia delle scienze: se le Annales erano attente solo alle tecniche applicate alla prassi economica, la storia delle scienze restava interna alle teorie, «senza coinvolgere le pratiche umane, i laboratori umani, la vita umana che li faceva vivere». Così fu persa la chance di studiare la scienza entro l'articolazione di pratiche e forme di vita che costituisce le società, chance che poteva trovare nel pensiero di Canguilhem principi filosofici adeguati, e che sarà recuperata in condizioni assai mutate da studiosi a vario titolo suoi debitori: da Foucault, con le sue ricerche sull'intreccio tra sapere e potere, ad Althusser, che tenterà di integrare l'epistemologia a una teoria delle pratiche, per non parlare di storici, quali Philippe Ariès e Georges Vigarello, che hanno indagato la variabilità contestuale di fatti «naturali» e dei saperi che li hanno ad oggetto e li plasmano. L'attuale frammentazione dei saperi specialistici non permette di parlare di una realizzazione pur tardiva di quell'incontro mancato, neppure oggi che il rapporto del sapere con la storia e con la società non può non essere indagato in un'ottica plurale ma unitaria: i discorsi sulle emergenze ecologiche, biotecnologiche o bioetiche non sembrano ancora produrre strumenti d'analisi adeguati alla natura complessa ma assai integrata dei fenomeni che turbano le menti contemporanee. Il recupero di una riflessione nata da uno spaesamento di fronte a mutazioni radicali del confine tra sapere e potere, verità e storia, può aprire nuove vie. E ciò, oltre all'intrinseca qualità del lavoro, conferisce al libro indubbia importanza e attualità.




Giovanni Villari




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